Sentenze

Studio professionale, il titolare deve riaddebitare le spese comuni

Cassazione: l'imputazione integrale dei costi a uno solo dei professionisti condividenti costituisce una liberalità indiretta non deducibile

lunedì 31 agosto 2015 - Redazione Build News

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La vicenda: denunciando violazione dell'art. 54 TUIR, il ricorrente – un avvocato - censura la sentenza d'appello laddove conferma il disconoscimento dei costi di studio legale, perché interamente dedotti dal contribuente e non ripartiti tra gli altri professionisti ivi operanti. L'avvocato ricorrente ritiene che, trattandosi di "giovani collaboratori tirocinanti", legittimamente "i costi indicati erano integralmente e perfettamente deducibili in quanto interamente da lui sostenuti perché relativi al suo studio legale". In alternativa, "ripartendo i costi totali dello studio in ragione dei compensi percepiti nell'anno di esercizio", secondo l'avvocato la quota dei costi a lui imputabili era "pari al 66,65% del totale e dunque a € 10.443,00".

La Cassazione civile, sezione 5, con la sentenza n. 16035 del 29 luglio 2015, ha dichiarato non fondata la censura proposta dal ricorrente.  

CIRCOLARI DELL'AGENZIA DELLE ENTRATE. La suprema Corte richiama quanto stabilito dall'Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 58 del 18 giugno 2001: "Il riaddebito, da parte di un professionista, delle spese comuni dello studio utilizzato da più professionisti non costituiti in associazione professionale, da lui sostenute, deve essere realizzato attraverso l'emissione di fattura assoggettata ad IVA. Ai fini reddituali, le somme rimborsate dagli altri utilizzatori comportano una riclassificazione in diminuzione del costo sostenuto dal professionista intestatario dell'utenza".

Inoltre, con la Circolare n. 38 del 23 giugno 2010, l'amministrazione finanziaria ha precisato che "Il reddito di lavoro autonomo è determinato dalla differenza tra i compensi percepiti e le spese sostenute. Ai fini reddituali le somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l'uso comune degli uffici non costituisce reddito di lavoro autonomo e quindi non rileva quale componente positivo di reddito. E' corretto ritenere che il costo sostenuto può essere dedotto dal professionista solo parzialmente, vale a dire per la parte riferibile alla attività da lui svolta e non anche per la parte riaddebitata o da riaddebitare ad altri. Infatti la parte di costo riaddebitata o da riaddebitare non è inerente alla attività da questi svolta e quindi non assume rilevanza reddituale quale componente negativo. Nella imputazione delle componenti reddituali al periodo d'imposta il reddito di lavoro autonomo segue il criterio di cassa, principio che può essere derogato solo nelle ipotesi previste. Pertanto il costo rimborsato al professionista dal collega per l'uso comune del locale di esercizio dell'attività nel periodo d'imposta successivo non può considerarsi rilevante ai fini reddituali per il professionista che lo riceve. Detto componente sarà invece rilevante per il professionista (collega), nel periodo d'imposta in cui effettivamente lo corrisponde per l'uso dei locali".

LE OSSERVAZIONI DELLA CASSAZIONE. Secondo la Cassazione “I documenti di prassi, così come più recentemente chiariti, prospettano una tesi ampiamente condivisibile. Infatti, i rimborsi astrattamente spettanti non costituiscono per l'intestatario dello studio professionale, condiviso con altri colleghi, componenti positivi di reddito bensì minori costi di gestione. Tale impostazione, dunque, fa si che si debba realizzare una esposizione sostanziale delle spese effettivamente sostenute se e in quanto inerenti all'attività di lavoro autonomo realmente svolta da ciascuno, altrimenti risolvendosi l'imputazione integrale dei costi a uno solo dei professionisti condividenti in una sorta di liberalità indiretta, pacificamente non deducibile”.

In subordine, nel ricorso si sostiene che al più i costi vanno imputati in proporzione ai proventi di ciascun professionista e, dunque, imputati nella misura del 66,65% all'avvocato ricorrente, “il quale, in difetto di specificità e autosufficienza, non spiega, però, sulla scorta di quali dati, se e dove esposti, si possa giungere all'invocata percentuale. Ne deriva – conclude la suprema Corte - che, mancando la concreta allegazione dell'apporto di ogni singolo avvocato dello studio, la ripartizione delle spese in ragione dei professionisti ivi presenti non è censurabile in punto di diritto”.

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